Mi imbatto in altre "pezze d'appoggio" alla mia tesi sulla necessità di superare il decostruzionismo: risalgo al saggio di Pasolini La fine dell'avanguardia.
La conseguenza – argomenta Pasolini – è che la lingua dell'avanguardia (e ha di mira il Gruppo '63), distruggendo la forza significativa e metaforica della parola, si presenta «[…] senza ombre, senza ambiguità e senza dramma, come dei formulari impersonali o dei testi accademici». Il problema che l'avanguardia non è stata capace di affrontare, è il modo di trattare la realtà senza devitalizzarla e anestetizzarla, quanto affermare «[…] la volontà dell'autore a esprimere un "senso", piuttosto che dei significati. Quindi a far succedere sempre qualcosa nella sua opera. Quindi a evocare sempre direttamente la realtà, che è la sede del senso trascendente i significati».Rispetto a una realtà così profondamente cambiata, osservava lo scrittore, sono inadeguati sia i metodi del vecchio impegno marxista che quelli dell'avanguardia, bisogna pretendere un'arte che sia in grado di affrontare il presente evocandolo, sospendendo il senso, realizzando opere ambigue, senza rinunciare all'impegno, ovvero alla realtà.
Ecco il testo a cui mi riferisco:
P.P. Pasolini, La fine dell'avanguardia (Appunti per una frase di Goldmann, per due versi di un testo d'avanguardia, e per un'intervista di Barthes), in Id., Empirismo eretico, cit., p. 130.
Valentina Valentini
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