lunedì 21 aprile 2008

DEPOSITO ultimo

Deposito ultimo

Dicevo: il problema è la mancanza di coraggio
Ci si nasconde dietro i cliches estetici delle avanguardie, senza la radicalità e la necessità che motivava le scelte linguistiche e sintattiche–compositive della ricerca delle avanguardie
Si ha timore di essere espliciti, perché abbiamo acquisito che il mistero, il non detto, l'ineffabile è più ricco del visibile, chiaro e distinto, certificato.
Si ha timore di raccontare una storia e ci si convince che non si vuole raccontare una storia;
la cultura contemporanea è antinarrativa, antiaristotelica, antiinizio e fine, la meta deve essere sempre indefinita
però le storie sono bene impresse, come pure i personaggi sono impressi (nei programmi)
ma si ha paura del teatro naturalistico e
per sfuggire al mimetico si cade nel dissociato
per sfuggire al consequenziale si sceglie l'iterativo,
per mancanza di addestramento si diventa performativi
per non saper dominare la propria vocalità, respiro, si mandano le voci off
per paura di essere banali (concreti) si attinge a concetti astratti
per paura del sentimentale si sottrae il sentimento
per timore dell'unità si ricorre ai frammenti
per essere in sintonia con la catastrofe senza qualità non si tenta il tragico
eppure il dolore esiste, non siamo atrofizzati,
l'immaginario va alimentato: il teatro lo nutre? E come? Con mitologie fassbinderiane, con la fantascienza?


NOTA 1
l'estetica dell'avanguardia, prima e seconda se cancellava le storie, amplificava i corpi, atleta, acrobata, biomeccanico, danzatore, trasparente, icona
Se detronizzava la parola, la semantica, il significato, esplorava il suono, la phoné, inventava una nuova lingua
proferire la parola come combattimento con il corpo (e non faccio esempi)
se spezzava la continuità immetteva il ritmo, la musicalità, lo sfiancamento, il montaggio a trame grosse, la polifonia
descrizione, paesaggi, geometrie orizzontalità, verticalità, sprofondamento: spazio organico non meccanismo auto sufficiente

NOTA 2
Per sbarazzarci di una cultura teatrale aristotelica in cui i nessi erano ben annodati c'è voluto quasi un secolo, dalle avanguardie storiche fino a tutto il Novecento, con le varie regressioni delle crisi del realismo socialista da cui ci si risolleva negli anni sessanta con il boom economico, emergono i Robbe Grillet, il gruppo 63 in Italia, gli happening e Cage,
il decostruzionismo negli anni settanta radicalizza gli assunti e li porta in tutti i campi, non solo artistici (filosofici, antropologici)
demolisce le impalcature
Il postmodernismo porta a compimento la demolizione dell'edificio semantico, compositivo.
Ma l'obiettivo a partire dall'astrazione, non era quello di desensorializzare, quanto di vivificare la realtà, togliere le scorie per mettere a nudo il cuore pulsante.


Possibile che le giovani generazioni si rivestano e si coprano come un mantello con le maschere vuote dell'estetica decostruttiva?:

Dov'è la crepa attraverso la quale chi rilegge Fassibinder, Pasolini, Medea, infila se stesso e lacera la cornice che si è creato?

Eppure la conoscenza c'è, non c'è ignoranza: come farla interagire nel proprio fare?
Come prendere coraggio?

Grazie per avermi offerto questa opportunità di riflessione

Valentina V.


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Valentina Valentini insegna all'Università della Calabria e al Corso di Studi in Arti e Scienze dello Spettacolo dell'Università di Roma "La Sapienza". Le sue ricerche comprendono lo spettacolo nel Novecento e il campo delle interferenze fra teatro, arte e nuovi media.

3 commenti:

Riccardo Fazi ha detto...

Cara Valentina,

le tue affermazioni nate dall’osservazione delle giornate di uovo critico, potrebbero essere considerate gravi.
Ma non lo sono.
Sono un’occasione mancata.
Per questo ho deciso di risponderti.
Non rispondendoti, perché le tue parole non me lo permettono.
Ma sollevando un paio di questioni, nel tentativo di instaurare un confronto vivo con te.
Il fatto è che le tue parole mancano il segno.
Non propongono, non dubitano, non criticano: affermano. La tua lista di interrogative retoriche non chiede risposte, per il semplice fatto che la risposta sembra possederla, fin dall’inizio, chi le scrive.
Quello che ho appena finito di leggere non ha la forma di una critica. Né di una riflessione.
E’ un manifesto. Che, in quanto tale, afferma.
Di conseguenza, entrare nel merito delle tue affermazioni, criticandole, od opponendovi un’idea altrettanto personale del teatro sarebbe decisamente inutile, se non dannoso.

(Anche se alcune di esse meriterebbero interi paragrafi di stupore:

“per mancanza di addestramento si diventa performativi
per non saper dominare la propria vocalità, respiro, si mandano le voci off
per paura di essere banali (concreti) si attinge a concetti astratti”

In nome di quale “coraggio” riesci a fare affermazioni come queste?)

Preferisco, come detto prima, chiederti qualche chiarimento, sperando si riesca a creare terreno per un auspicabile incontro.

“Mancanza di coraggio”; “timore”; “nascondersi, sfuggire”: la tua visione del teatro sembra essere quella di un fare che si costruisce sulla fuga e sul timore, soprattutto sulla scelta predeterminata e raziocinante di cosa sarebbe giusto fare e cosa non; di cosa sarebbe conveniente (per chi?) mostrare in nome di una nascosta paura (di cosa?) che offuscherebbe la volontà rivoluzionaria e affermativa che il teatro in quanto tale, a tuo parere, dovrebbe avere.


Non riesco a comprendere questo coraggio di cui parli. Questo coraggio cui inneggi, spogliato di qualsiasi valore etico, questo coraggio che fai assurgere a vera e propria categoria estetica nel nome della quale costruire il proprio teatro: a cosa si riferisce? E’ un coraggio politico, artistico, estetico? E’ tutti e tre insieme?

Le tue due note conclusive, sulle avanguardie e sul teatro che è stato.
Propongono un provocatorio confronto tra quello che vedi oggi e quelle che erano le istanze politiche/estetiche del teatro dell’avanguardia. Nemmeno troppo nascosta sussiste un’affermazione chiarissima: il teatro che oggi incontri non propone nessuna creazione in nome della quale distruggere, come l’avanguardia prima e seconda facevano.
Dietro la detronizzazione della parola, la frammentazione, etc.. non riesci a vedere nulla. Ti chiedi: “possibile che le giovani generazioni si rivestano e si coprano come un mantello con le maschere vuote dell’estetica decostruttiva?”
E’ in questa domanda che, a parer mio si nasconde la vera chiave del problema. Te la rilancio, con l’invito a capire, davvero, con quali occhi stai guardando quello che ti accade davanti, oggi. Con l’invito a capire se tu stessa credi davvero e fino in fondo a quello che scrivi.
Personalmente, posso affermare che oggi, con il mio fare, sento di non stare opponendomi a nulla. Non cerco di sbarazzarmi di niente. Né di appropriarmi di istanze che oggi non avrebbero, come giustamente tu affermi, ragione di esistere.
Piuttosto, il contrario.
Cerco con il mio lavoro di fare un teatro che racconti storie, che emozioni e che sia, soprattutto, vivo.
E amo ritrovare queste caratteristiche nei lavori di chi, in questo tempo presente, ha avuto il coraggio di accettare la sfida di questo mestiere.
Il modo, ovviamente, cambia, come è giusto che sia, ogni volta, e a seconda dei singoli casi.
Il modo di fare e il modo di guardare.
Ti invito, con affetto, ad osservare la realtà con occhi puri.
Altrimenti non vedrai mai nulla.

Riccardo

Anonimo ha detto...

spettatrice:
Che sollievo leggere questa riflessione!
Concordo pienamente sulla mancanza di coraggio.
Sarebbe perdonabile un eccesso piuttosto che il vuoto.
Mi interrogo su cosa significhi sperimentare e ricercare oggi.

Saluti
da una spettatrice delusa

Riccardo Fazi ha detto...

Diverse persone mi hanno fatto notare che non compare il mio cognome sul blog.
Approfitto per specificare che il Riccardo che ha postato la riposta a Valentina Valentini si chiama Riccardo Fazi.