mercoledì 5 marzo 2008

le riflessioni di Donatella Bertozzi

Di seguito riportiamo il frutto della prima esperienza UOVO CRITICO: le riflessioni della storica e critica di danza Donatella Bertozzi.

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UOVO CRITICO, 29 FEBBRAIO 2008
MAddAI – SIMONA LOBEFARO | DONATELLA BERTOZZI


È stata un'ottima esperienza, affrontata con qualche perplessità da parte mia, svoltasi in fasi diverse con grande semplicità, un pizzico di fortuna, e reciproca soddisfazione, mi pare.
Mi ha fornito ulteriori preziosi elementi di conoscenza per il mio lavoro e spero – ma, senza falsa modestia, anche credo – abbia reso pure un utile servizio agli artisti coinvolti.

È stata un'esperienza che mi è piaciuto fare ma che, tuttosommato, mi piacerebbe – almeno "in un mondo ideale" – non dovesse ripetersi.

Cercherò di spiegare perché.

In sette anni di attività del gruppo "MAddAI" – fondato come coreografa da Simona Lobefaro (artista che collabora, come danzatrice e creatrice, anche con il gruppo "sistemi dinamici altamente instabili") – non mi era mai capitata l'opportunità di vedere, neanche una sola volta, il loro lavoro. Eppure vado a teatro da quasi vent'anni per quasi trecento sere l'anno, e capitano, qualche volta, giorni in cui devo andare anche due volte.
Informandomi – e conoscendo un po' il lavoro dell'altro gruppo con il quale Simona Lobefaro collabora – avevo però avuto occasione di segnalare il lavoro di MAddAI nella rubrica quotidiana che tengo da ormai quasi sei anni sul Messaggero. Credo tuttavia che se non fosse stato per "Uovo critico" sarebbero passati ancora molti mesi, forse anni, prima che mi riuscisse di intercettare almeno una volta il lavoro di Maddai.*

Come ho detto avevo in principio delle perplessità.
Non mi convinceva l'abolizione, per le caratteristiche dell'iniziativa, della normale "sana" distanza fra artista e critico, necessaria secondo me perché ciascuno possa svolgere al meglio il proprio lavoro. In particolare l'artista, che da un'eccessiva vicinanza col critico non può che essere – potenzialmente – che danneggiato. Poiché si espone in modo molto più drastico che durante una performance o uno spettacolo. Ma anche il critico rischia (meno) di perdere qualcosa nel momento in cui si abolisca, o almeno si riduca fortemente, la sua distanza dall'artista. La prima cosa che rischia di perdere è la credibilità agli occhi del pubblico. Per la semplice e intuitiva ragione che chiunque capisce che è difficile, quando non impossibile, mantenere un atteggiamento efficacemente critico nei confronti di qualcuno con cui condividi troppe cose.

Comunque ho accettato: innanzitutto per sanare la distanza materiale, in termini di tempo e di luogo nei confronti di un gruppo che pensavo valesse la pena conoscere. E poi perché mi pareva che l'iniziativa di Uovo Critico lanciasse con forza un segnale di allarme che andava sostenuto e amplificato.

La fortuna, per me, è stata che MAddAI partecipasse alla prima edizione del concorso coreografico "Equilibrio" e fosse stato selezionato fra i dieci gruppi finalisti. Questo mi ha dato l'opportunità, di fatto, di vedere comunque il loro lavoro per la prima volta con la "classica" distanza giusta e devo dire che quel che ho visto mi ha interessato molto. Nell'atmosfera stagnante della prima giornata del concorso il gruppo MAddAI ha portato una ventata di energia finale che ha spazzato l'apatia, scompaginando perfino la disposizione delle sedie in sala e presentandosi con qualcosa dal carattere veramente e intrinsecamente diverso e apparentemente subito positivamente riconducibile – almeno nell'ambito di una cornice ufficiale come quella dell'Auditorium – alla loro identità di artisti "diversi", nati e in gran parte cresciuti nell'ambito di un'esperienza specifica come quella di un centro sociale occupato e autogestito. (Quando più tardi nel corso della realizzazione della nostra trasmissione in streaming ho fatto questa osservazione, Simona si è un po' arrabbiata )

Dopo questo incontro sono andata ad assistere ad un paio d'ore di prove.
Questa è stata la prova più difficile, più che altro per loro, credo, ma anche per me.
Avendo cominciato come danzatrice – nell'ambito della danza contemporanea degli anni Ottanta – ho passato ore e ore in sala prove e ne conosco l'atmosfera (ma loro, credo, questo a quel punto non lo sapevano) perciò non credo di poter fraintendere più di tanto quello che accade. Ciononostante ognuno ha suoi ricordi e opinioni e idee di come debbano andare le cose ed è sempre rischioso testare questo materiale da un punto di vista critico. È un'atmosfera infinitamente fragile e si rischia di ricavare (e poi conservare) impressioni negative da quel che si vede anche quando queste non sono assolutamente giustificate. Oggi sappiamo poi fin troppo bene che ogni osservatore influenza il procedimento sperimentale che osserva, e se questo è vero per la scienza figuriamoci per l'instabilità intrinseca di qualunque esperimento artistico... Ad ogni buon conto i danzatori/performer di MAddAI se la sono cavata egregiamente, secondo me, riuscendo abbastanza rapidamente a fare "come se non ci fossi" (spero anche, un po', per la mia capacità di mimetizzarmi con l'ambiente ...) e a lavorare "comunque".

Devo dire che, in quell'occasione, mi ha straordinariamente sorpresa la loro capacità di parlare fra loro un liguaggio a me assolutamente incomprensibile ma da ogni punto di vista linguisticamente coerente: parlavano e non li capivo ma capivo perfettamente che loro si capivano minuziosamente e dettagliatamente: questo mi ha dato l'idea di un gruppo molto coeso e concentrato nel raggiungimento di obbiettivi comuni e già anche sufficientemente chiari. Ricordo ancora troppo bene, per esperienza diretta, certi inconcludenti e vuoti "ba bla" delle prove che andavano avanti per ore, per non riconoscerli al volo e non capire quando si tratta di tutt'altro: di un vero percorso "segreto" e comune fra artisti.

Dopo le prove ci siamo fermati a pranzo e abbiamo chiacchierato un po' confrontando le nostre reciproche storie di vita: mi pareva naturale visto che io ero "ovviamente" autorizzata a conoscere dettagliatamente il loro curriculum che in questo caso di abolizione delle distanze fossero in grado anche loro di conoscere, ed eventualmente giudicare, il mio.

La sera ci siamo visti a "Podoff": sono rimasta veramente sopresa della grande professionalità dei ragazzi di "Podoff": in qualunque altro paese europeo – esclusi forse i paesi dell'Est recentemente entrati a far parte dell'Unione, ma non ne sono sicura – sarebbero in grado di vivere del loro lavoro. Qui a Roma non sono certa che questo succeda. Mi piacerebbe ricevere una smentita.

Anche l'esperienza a "Podoff" mi è stata utile come punto di osservazione: Simona si è dimostrata una persona particolarmente timida ma molto preparata. Ha idee chiare e sa dove vuole andare.

Ultima tappa – prima della scrittura di questa relazione, che è l'ultima tappa ufficiale – il lavoro in teatro. Kataklisma teatro è uno spazio effettivamente minuscolo e io che avevo visto la sera prima alla Sala Petrassi – uno spazio almeno venti volte più grande di Kataklisma – uno spettacolo di cinque artisti (bravi ma "pecioni" si direbbe a Roma) che hanno passato l'intera serata a tentare di evitare di pestarsi i piedi e di prendersi a ceffoni, sono stata colpita dalla precisione e dall'economia di movimenti che hanno consentito ai sette di MAddAI di ripetere con analoga efficacia nello spazio di Kataklisma l'energetica performance già proposta al Teatro Studio dell'Auditorium una quindicina di giorni prima.

Il lavoro è ancora ad un primo stadio ed è difficile dare un giudizio. Ma si può dire fin d'ora che si tratta di un lavoro costruito con grande accuratezza, indubbie capacità di valutare e ponderare i valori temporali e spaziali in gioco, costruendo al contempo – grazie al contributo degli interpreti, attraverso l'improvvisazione, come è stato successivamente spiegato nel corso dell'incontro col pubblico – dinamiche di movimento ricche di valori energetici e che si combinano in un modo interessante, "quasi" raccontando una storia. Anche se Simona ha precisato – grazie ad una cruciale domanda di Valentina Valentini, presente alla serata – che a lei non interessa affatto raccontare storie. Ma il movimento di ciascuno, se ben congegnato in termini di forza spazio e tempo, racconta sempre qualcosa di interessante.

L'incontro con il pubblico ha confermato la mia convinzione che quando qualcuno ha le idee chiare queste vengono comunicate con facilità, almeno nella danza. Punti di forza e punti di debolezza della composizione sono stati indicati dal pubblico con precisione quasi clinica.

Aggiungo che il contributo di Valentina Valentini – almeno per me che vengo dalla "vecchia guardia" – è stato particolarmente significativo per stabilire un ponte, prezioso, con una stagione non troppo lontana ma cruciale della danza sperimentale italiana, quella degli anni Ottanta. Stagione nella quale risultò determinante l'apporto e il sostegno critico e affettuoso di una personalità come quella di Giuseppe Bartolucci (di cui recentemente Valentina Valentini ha curato un'importante raccolta di testi). Allora per la prima volta si avviò una riflessione critica sugli autori della danza italiana e sulle loro opere. Quella stagione critica troppo rapidamente si dissolse anche proprio per il progressivo venir meno della semplice possibilità pratica di esercitare una critica. Oggi che internet comincia a fornire non solo spazi – quelli ci sono già da diversi anni – ma aggregazioni coerenti di forze che fanno intravedere addirittura la possibilità che emerga finalmente una nuova "giovane critica", c'è da augurarsi che esperimenti come quello di Uovo Critico contribuiscano alla rinascita e alla elaborazione di un nuovo autorevole pensiero critico sulla danza contemporanea italiana. Ciò che finirebbe, speriamo, per giovare concretamente alla buona salute sia fisica che artistica dei nostri autori, oggi una specie, nel proprio paese, a serio rischio di estinzione.


Donatella Bertozzi
Roma, 5 marzo 2008


* Molte e diverse le ragioni. La principale è l'apparente assenza di qualunque possibilità di ricambio generazionale – allo stato attuale delle cose, nel nostro paese – per la "vecchia" professione del critico. Anche le ragioni di questa impossibilità sono varie, ma possono riassumersi, a mio parere, nell'assoluto disinteresse, quando non del disprezzo, per le ragioni della cultura (a meno che questa non si traduca in fonti immediate di profitto), che anima in modo pervasivo e analogo, con poche eccezioni, la classe dirigente e la classe politica nel nostro paese.
Non ci sono più critici perché l'elaborazione di un pensiero critico sulla cultura "non fa comodo" a chi ha interesse a governare la cultura esclusivamente a colpi di strepitosi successi di pubblico. Questo sta producendo la morte – o peggio, in molti casi l'intima deformazione – di quelle risorse umane e materiali che offrivano al pubblico, colto e meno colto, la possibilità di formarsi nel tempo un'opinione personale sulla produzione culturale corrente. Quel che è peggio, rischia di produrre la rapida asfissìa di quel ricco tessuto di artisti-artigiani, sempre fiorente nei secoli nel nostro paese, che sono il nerbo di qualunque linguaggio artistico ma che, non essendo "grandi" o "grandissimi" non sono considerati non dico degni di una seria considerazione e attenzione critica (questa non tocca più neanche a "grandi" e "grandissimi" che in massima parte sono semplicemente "presentati" e "intervistati" dai media) ma neanche di una semplice menzione. Naturalmente ci sono eccezioni (la mia stessa rubrica e tutte quelle dedicate allo spettacolo sul Messaggero) ma sono frammenti, schegge o minuscole correnti, perennemente a rischio di andare in secca, anche per le condizioni di crescente schiavismo che caratterizzano il lavoro all'interno dei media nel nostro paese.

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